Il test RAH non e’ una valutazione psicologica, ma un viaggio nei colori della memoria
- Andreea Hartea
- 29 giu
- Tempo di lettura: 3 min
C’è qualcosa di profondamente umano nel modo in cui un colore può spalancare una porta sul passato. Un giallo sfolgorante, un azzurro morbido, un rosso che pulsa: non sono solo sfumature, ma frammenti di noi, intrecciati a momenti che ci hanno segnato.

È da questa intuizione che nasce il test RAH, un progetto che non ambisce a incasellarci, ma a offrirci una mappa per ritrovare ciò che ci fa stare bene. Da quando la piattaforma si è aperta a un pubblico più vasto, ho notato un cambiamento: chi si avvicina oggi lo fa con la curiosità di chi scopre un libro appena pubblicato, senza conoscere necessariamente gli altri scritti in precedenza, come quello che ho condiviso a lungo sui miei canali social. Molti si tuffano direttamente nel test, e solo dopo, con un misto di stupore e domande, mi scrivono per capire cosa hanno tra le mani.
Uno di loro, un artista inglese, mi ha contattato poco dopo il lancio. Le sue parole erano un canto di entusiasmo: "ho trovato tutto il processo per generare il risultato davvero intuitivo e progettato con grande sensibilità. Mi ha colpito l’equilibrio perfetto: effimero ma profondo, esteticamente raffinato ma anche rigoroso dal punto di vista concettuale. Riesco a vedere chiaramente il valore che può offrire sia agli artisti che ai clienti!"
Grazie, Stephen, per aver colto l’essenza di RAH.
Ma poi ha fatto qualcosa che mi ha spiazzata: ha preso i codici HEX dei suoi colori RAH, quei numeri che traducono le sue sfumature personali, e li ha inseriti in ChatGPT, chiedendo un’“analisi psicologica” di quei dati. Mi sono chiesta: come si può ridurre un viaggio così intimo a una lettura algoritmica, costruita su teorie standardizzate? Non è questo lo spirito di RAH, né il suo scopo.

Per capirne la natura, serve un passo indietro, verso un confronto con un altro test, ben più noto: quello di Max Lüscher, lo psicologo svizzero che ha trasformato il colore in una lettura dell’anima. Il suo test, con 64 tonalità e una serie di scelte e classificazioni, è un’architettura complessa, capace di fotografare lo stato emotivo di chi lo affronta, dai moti coscienti fino agli abissi dell’inconscio. È uno strumento clinico, usato persino in contesti militari per valutare chi deve affrontare ruoli delicati: cadetti, co-piloti, personale destinato a missioni oltre confine.
Anni fa, ho seguito un corso per impararne la somministrazione, e ne sono rimasta affascinata: scegliere un colore, in quel contesto, è come confessare un sentimento, un’istantanea dell’umore del momento. Ma il test RAH, pur condividendo con Lüscher l’uso del colore, segue un sentiero diverso, più vicino alla poesia della memoria che alla diagnosi.
RAH non si limita a catturare l’istante. Radicandosi nei ricordi, in quella memoria emotiva a lungo termine, resta stabile nel tempo. Le sue domande, un intreccio di intuizioni e provocazioni, guidano chi lo compila a esplorare il legame tra colore ed emozione, scavando nei momenti che hanno lasciato un segno. Non è un’indagine psicologica, ma un invito a riscoprire ciò che ci ha fatto vibrare.
Il suo fondamento poggia su quattro pilastri neuroscientifici: il Paradigma del Cervello Predittivo, che spiega come il cervello anticipi e interpreti il mondo; l’Elaborazione Sensoriale Top-Down, che dà priorità alle esperienze personali nel percepire i colori; il Sistema Motivazionale di Avvicinamento e Allontanamento, che regola le nostre reazioni emotive; e le Associazioni Implicite, quei collegamenti inconsci che un colore può evocare. Insieme, queste teorie trasformano RAH in una bussola per orientarsi nel paesaggio interiore.
Immaginate un giallo. Per qualcuno, è il riflesso di un’estate lontana, un materassino che ondeggia sul mare, la voce di una madre che culla. Per un altro, è un’ombra inquieta, il colore di un’auto che sfreccia in un ricordo traumatico. Questi accesi, questi intrecci tra colore ed emozione, nascono per caso, in momenti che non scegliamo, ma che ci segnano per sempre.

RAH non pretende di dirci chi siamo, né di classificarci come “sani” o “fragili”. Ci offre una palette personale, unica come un’impronta digitale, che può essere reintegrata nel nostro quotidiano (un cuscino, una parete, un quadro) per riaccendere i circuiti neurali legati a esperienze positive. È come sfogliare un album di fotografie invisibili, dove ogni colore è un capitolo della nostra storia.
In un’epoca in cui cerchiamo risposte immediate, spesso preconfezionate, RAH ci spinge a porci una domanda, che ricorda le riflessioni di Proust o le intuizioni di Bachelard: Cosa mi fa sentire vivo? Non è una diagnosi, ma un dialogo con noi stessi. Non è una definizione, ma un invito a coltivare ciò che, in fondo al cuore, sappiamo ci appartiene. E forse, in questo gesto semplice, scegliere un colore, ricordare un momento, c’è un piccolo atto di resistenza: contro la fretta di etichettarci, contro l’urgenza di semplificarci. C’è, invece, la possibilità di abitare, con consapevolezza, il nostro mondo interiore.
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